MARCO POLO PRENDE IL VOLO

pamir hindu kush 7mila

11 agosto: domenica.

Addio Samarcanda!

Ieri abbiamo trascorso l’ultimo giorno di questa prima parte del viaggio (highlight della giornata: io che alla biglietteria della moschea più antica della città negozio con successo per farci entrare in due al prezzo di uno). Oggi è il gran giorno della traversata verso il Tajikistan: l’avrete sicuramente già capito che stavamo arrivando a questo momento, perché avrete certamente notato la coincidenza della pubblicazione degli album di foto con la scansione delle tappe del viaggio. Ah, che raffinatezza! Se solo la notasse il National Geographic.

Ci congediamo non solo dalla città di Tamerlano, ma anche dall’Uzbekistan, che ritroveremo solo alla fine del tragitto, tra più di due settimane, per riprendere il volo verso casa. Quel che ci aspetta è molto diverso dal mondo che abbiamo esplorato negli ultimi nove giorni. Addio moschee, addio madrasse, addio mausolei, addio città d’arte islamica; ci aspettano le solitudini delle vette selvagge del Pamir.

Ma ci arriveremo? E quando? E a che prezzo?

pamir preview

(beh, non esageriamo: non dobbiamo arrivare fin lassù)

Ogni speranza che improvvisamente riaprissero la frontiera di Penjikent è abbandonata; bisogna passare dalla lontana Denau. Idem per le speranze di trovare un mezzo più economico del taxi collettivo fino alla capitale tajika Dushanbe, nonostante l’ora passata, alla vigilia della partenza, alla biglietteria dei treni per trovare una possibile combinazione di carri bestiame su rotaia che arrivasse fino al confine.

Stamattina presto quindi si va al bazar dove cominciamo a sudare già per trattare un taxi che dal centro ci porti in periferia, al punto di partenza dei taxi collettivi di lunga distanza verso il sud e l’est (per inciso: trovare tutte queste informazioni, voglio dire scoprire da dove partono i taxi collettivi di lunga distanza per il sud e l’est, quando nessuno parla inglese e l’ufficio del turismo è in realtà un negozietto di stoffe che vuole solo venderti il suo tour organizzato del centro storico, non è mica una cazzata).

Al punto di partenza dei taxi collettivi parte la nuova, sudatissima negoziazione; ché qui non ne va di venti centesimi, qui ballano le decine di dollari. La trattativa è lungamente coreografata, prevede finte incazzature a turno da parte nostra e dei tassisti, ci vede a un certo punto allontanarci a passi decisi dicendo “Okay, allora non ci interessa” come se potessimo trovare un altro mezzo di trasporto o magari rinunciare al Tajikistan. Ma si bluffa, anche se non sta in piedi. Ovviamente è questione di tempo: più hai pazienza, più puoi tirare sul prezzo, perché è vero che noi vogliamo partire, ma anche loro vogliono guadagnare e non ci sono altri turisti in giro. L’accordo alla fine si trova, come era scontato. Completano la macchinata due signori del posto che probabilmente tornano a trovare la famiglia (i dettagli, come sempre a causa delle difficoltà linguistiche, ci sfuggono).

pamir teaser

(un altro teaser, eh eh)

Alla sosta per il pranzo, ci copriamo di vergogna senza volerlo. Il fatto che è questi signori sono abituati a mangiar presto e noi abbiamo fatto una colazione enorme per finire tutta la roba avanzata dalla spesa di ieri al bazar – pesche, albicocche e pane in quantità. Insomma, non abbiamo per niente fame. Solo che per gli uzbeki, o tajiki che siano, è inconcepibile che uno non mangi quando ne ha l’occasione. Insistono talmente tanto che sediamo con loro a tavola (noi, i due compagni di viaggio e l’autista) e inizia il teatrino per convincerci a mangiare qualcosa.

Dopo qualche cortese rifiuto da parte nostra, pur non sembrando convinti, i commensali si calmano, forse accettando che faremo loro compagnia senza condividere il pranzo. Finché, di punto in bianco, uno dei due passeggeri spinge verso di noi un piattino con un’insalata di pomodori e cetrioli guarniti di erbette locali e ci passa dei pezzi di pane, dicendo: “Non vi preoccupate, ho già pagato tutto io!”.

Che figura di merda! Ora pensano che non mangiamo perché siamo tirchi! A questo punto, per non aggiungere alla figura da spilorci quella degli ingrati, accettiamo e sbocconcelliamo qualcosa (in realtà, così facendo confermiamo la loro convinzione che non mangiavamo per non spendere l’equivalente di un euro a testa – tanto costa un pasto da queste parti).

Inciso: qui in Asia centrale c’è un modo preciso di servire il pane, che è di prenderlo, spezzarlo con le mani (di solito lo fa il padrone di casa, o la persona più importante al tavolo, ma chiunque può prendere l’iniziativa per essere gentile) e distribuirlo fra gli invitati. Guai a tagliarlo col coltello o a servire soltanto se stessi: ogni preoccupazione igienica scompare di fronte all’importanza del senso dell’ospitalità. Va detto poi che il pane di queste parti è morbido ma al tempo stesso coriaceo, quasi elastico, e che spezzarlo non è affare da poco: bisogna piantare bene le dita, stringere forte e tirare con decisione, fino a strapparne pezzi dalla forma irregolare. Insomma, ogni singolo microbo, dal polso fino a sotto le unghie, ha la sua chiara finestra di opportunità per cambiare vita saltando dalla mano al pezzo di pane, senza sforzo.

E così, nel corso di questo lungo viaggio, innumerevoli volte ci ritroveremo a prendere pezzi di pane strappati con una tale decisione che mostrano la forma anatomica delle mani del commensale; e pazienza se questi è appena tornato dal bagno, come dicono i miei amici inglesi, you just hope for the best. A onore di questi popoli, non ho avuto il minimo disturbo.

pamir capre

(ultimo trailer)

Torniamo a noi; si riparte e il resto del viaggio è pittoresco ma piuttosto lungo, e finalmente alle due di pomeriggio siamo alla frontiera.

Denau ci regala il primo vero assaggio di cosa sia la militarizzazione post-sovietica di queste repubbliche, tanto più che i due paesi non si amano per niente – a causa di questioni etnico-storiche: Bukhara e Samarcanda, le perle dell’Uzbekistan, erano di fatto una volta più tajike che uzbeke; solo che allora, prima che ai russi (zaristi e bolscevichi) venisse l’idea di tracciare linee sulle mappe dappertutto, qui non si erano mai posti il problema degli Stati e dei confini. C’erano dei khanati, specie di città-Stato di volta in volta depredate dai vari Genghis Khan nel corso dei secoli ma mai formalmente unificate in entità nazionali. Chi tracciò i confini per la prima volta in modo netto e rigido fu tale Giuseppe Stalin; e lo fece con l’intento preciso di spezzare l’unità di questi popoli per evitare che nell’unione trovassero, come si suol dire, la forza. Insomma la solita storia dei confini farlocchi legati all’occupazione straniera.

Morale della favola, quando per la prima volta sulla mappa apparvero queste linee invalicabili, ops! Bukhara e Samarcanda si trovano dalla parte sbagliata… e questo passi finché c’è Stalin o Kruscev; ma oggi che le due repubbliche sono indipendenti, cosa impedisce agli uzbeki di rendercele?, si chiedono i tajiki. Più o meno.

Per farla breve: ci sono tre controlli sul lato uzbeko della frontiera, due su quello tajiko, più un attraversamento a piedi di un paio di centinaia di metri di terra di nessuno (ma se c’è un omicidio in queste terre di nessuno fra frontiere, quale polizia è competente? me lo chiedo sempre). Per arrivare dall’altra parte, senza peraltro dover fare né coda né incontrare altri migranti, ci mettiamo più di due ore.

E una volta passati in Tajikistan, ricomincia la quotidiana battaglia delle trattative con i mezzi di trasporto; solo, ora siamo in un paese nuovo, la cui valuta non siamo ancora abituati a maneggiare, i cui prezzi non conosciamo. Il borsino delle inculate è schizzato di nuovo ai massimi.

Prima di tutto, ho letto sulla Lonely Planet che dal confine fino a Dushanbe si può andare in marshrutka, il pullmino collettivo ubiquo nella regione. Quindi respingiamo con decisione tutti i tassisti che ci assaltano. Finalmente un pullmino arriva e noi ci accodiamo senza indugio ai tajiki che ci salgono sopra. I tassisti vanno a reclamare con l’autista del pullmino: vogliono che ci faccia scendere, non è giusto che dei ricchi turisti possano cavarsela così facilmente, è loro diritto inchiappettarci a sangue e lui non ci deve salvare. In nostro soccorso, però, arrivano tre donne del popolo, tre donnone con in testa dei foulard da contadina, più che da musulmana, che scacciano quasi a borsate i tassisti dicendo loro di lasciarci stare.

E così il pullmino chiude le porte e parte. Contenti, io e la Babs ci accomodiamo sui sedili e pregustiamo l’arrivo a Dushanbe.

A un certo punto, poco più avanti, le tre donne scendono: e noi capiamo di essere rimasti senza protezione. Per la prima volta ci accorgiamo che l’autista del minibus non avrà più di venticinque anni; scherza con gli altri passeggeri, che – anche questo è come se non l’avessimo notato prima – hanno tutti la stessa età. Di colpo, anziché essere su un marshrutka con dei regolari passeggeri, abbiamo l’impressione di ritrovarci nel bel mezzo di una zingarata con quattro ragazzotti dall’aria un po’ troppo scaltra. Ci fermiamo: tutti scendono, ci fanno segno di mangiare, indicano una chai khana sulla strada.

Siamo abituati al fatto che i mezzi pubblici si fermino quando l’autista ha fame, solo che noi ora abbiamo fretta di arrivare, ci sono ancora quasi due ore di strada e questi ragazzi sembrano sempre più quattro cloni perfetti di Lucignolo. Com’è come non è, tutti insieme (come un’associazione a delinquere ben organizzata) cominciano a chiedere prezzi esosi per portarci a destinazione, imponendoci tra l’altro di pazientare finché mangiano… decidiamo di scendere e salutarli. Loro fanno spallucce, chiudono le porte del pullmino ed entrano nel ristorante.

Sono quasi le sei, siamo in viaggio da dodici ore (di cui la maggior parte su strade sterrate, in tre sui sedili didietro di un’auto stretta, il terzo essendo un tajiko generoso ma grasso, dopo tre negoziazioni con altrettanti mezzi e la via crucis della frontiera e comincia a tramontare il sole); siamo in un villaggio di cui non sappiamo il nome, senza mezzi di trasporto. Tutto va bene.

Ci incamminiamo verso l’incrocio poco più avanti, perché di solito è agli incroci che si acchiappano i passaggi. Fra me e me mi sento un po’ abbacchiato e probabilmente la Babsie si sente uguale, ma entrambi scherziamo e ci mostriamo sereni l’uno con l’altro per non crearci reciproche preoccupazioni.

Finalmente una botta di culo: proprio in quel momento, vedo passare un marshrutka. E nonostante la sua relativa velocità e la mia poca abitudine ai caratteri cirillici, riesco a leggere il segnale che indica la destinazione: Dushanbe. Lo fermiamo al volo, saltiamo sopra e si riparte.

Prendiamo un po’ di passeggeri qua e là, siamo un pozzo di felicità – finché l’autista si ferma per incassare e con una grandissima faccia di merda osa chiedere a me e alla Babsie un prezzo superiore agli altri. Ancora una volta, gli altri passeggeri insorgono in nostra difesa; il ragazzo seduto di fronte a me (che parla un po’ d’inglese) mi fa capire di aspettare e tenere i soldi da parte, ché sicuramente, con un po’ di resistenza passiva, l’autista verrà a più miti consigli. Aspetta, aspetta, a un certo punto sembra perfino che il conducente si sia dimenticato del tutto di me e della Babsie; dal pagare troppo a non pagare niente! Il ragazzo, indicando i soldi che tengo stretti in pugno, mi fa l’occhiolino e dice sottovoce: “keep for the coffee!”

Poco dopo in realtà l’autista torna e viene a riscuotere anche da noi, accettando però stavolta la tariffa standard dei locali.

Il marshrutka purtroppo non entra in città: si ferma alla stazione dei taxi alla periferia, dove tutti scendono. Con un lungo, sincrono sospiro (che stavolta non nasconde la stanchezza) io e la Babsie trasciniamo i piedi verso l’ennesimo taxi, pronti a l’ennesima negoziazione. Ma ormai siamo vicini alla meta, la stanchezza è fisica, non c’è preoccupazione.

Il bello della giornata deve ancora arrivare. In centro a Dushanbe, avendo sottovalutato la lunghezza dei lunghi boulevard in stile sovietico, ci incamminiamo per fare “quattro passi” fino all’hotel che abbiamo scelto sulla guida, finendo per macinare a piedi i chilometri, solo per sentirci dire “Sorry, sorry, today holiday, people no work, no clean rooms, all dirty, so sorry, so sorry!”. Altri chilometri, e miracolosamente troviamo un altro hotel, ma di un lusso ultra-kitch tipo corazzata sovietica per i funzionari del Pcus. Per fortuna hanno una stanza, proprio di fianco alla reception (che per strane ragioni è al quarto piano).

Entriamo: in stanza, il nostro sguardo è attratto da un piatto con una fetta di cocomero mezza mangiata sul mobiletto della tv. La donna che ci sta mostrando la camera si affretta a farlo sparire, senza commenti.

Mi avvicino alla porta del bagno per vedere com’è – e in quel preciso momento, da dietro la porta, sento tirare l’acqua. “Ehm, excuse me…”, dico alla receptionist. Ma lei niente, mi mostra l’aria condizionata. “Sorry…”, riprovo timidamente; ma lei niente, accende la tv e mi fa vedere quanti bei canali russi posso vedere. Finalmente la porta del bagno in camera si apre e ne esce un ragazzo che, vedendomi, resta stupito quanto me nel vedere lui.

“Ah…”, dice la donna, “questa camera di solito la usiamo noi dello staff come stanza d’appoggio. Non si preoccupi, la pulisco subito”. E così fa, alacremente. E noi, impotenti la guardiamo all’opera, aspettando ancora quest’ultima mezz’ora di passione, prima di crollare sfiniti sul letto o sotto la doccia.

Poco più tardi, proprio mentre decidiamo che non abbiamo né fame né voglia né forza di andare a cena, bussano alla porta. “Oh no”, penso, “questo è il ragazzo della reception che ci chiederà se può fare la cacca nel nostro bagno”.

Ed è proprio lui, solo che grida: “Regalo!” e ci lascia mezza anguria in omaggio, un’anguria rossissima, bellissima, saporitissima, che divoriamo con gli avanzi del solito pane, che faccio a pezzi con le mani proprio come vuole la tradizione.

Informazioni su Francesco Segoni

Sono un uomo italiano che vive a Parigi: questo è tutto quel che so di me, il resto cambia tre volte al giorno. Mi si possono rimproverare tanti difetti, ma non la coerenza. Se mai doveste notare che qualcosa in questo blog è scritto male, giuro che l'ho fatto apposta.
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