Le sculture di noi stessi

C’è modo di rimettere la musica al suo posto e lasciare che ci intrattenga? O è destinata per forza di cose a plasmare la vita?

L’anno era il 1991, il che vuol dire che facevo ciao ciao all’adolescenza per diventare un debuttante dell’età adulta, peraltro penosamente impreparato ad affrontarla (quello non è cambiato). Erano i giorni in cui scavavo un solco fra Pavia e Milano a forza di percorrere la distanza in corriera. Aspettavo la fine delle lezioni bocconiane in via Sarfatti, a Milano sud, per sfidare le nebbie padane e tracciare un altro solco in direzione della provincia, dove tutto era uguale alla grande città: stesse marche dei giubbotti, lo stesso taglio dei jeans, lo stesso bisogno di frequentare i locali giusti. A Milano c’erano i karaoke, eccola una differenza: nella provincia non sarei mai finito su un palco vestito da donna a sgolarmi sui Litfiba di fronte a qualche decina di sconosciuti alcolizzati. Non per mancanza di volontà, ma di karaoke.

Il tardo pomeriggio era il momento più importante della giornata: finite le ore produttive, non avevo scuse per non vegetalizzarmi di fronte a MTV. Che poi, se devo essere sincero, mica era MTV, era Video Music, che stava a MTV come Pavia stava a Milano: stessi video, un logo diverso in basso a destra.

Avevo iniziato da due o tre anni, non di più, ad ascoltare la musica che mi sarei portato dietro, volente o nolente, per il resto dei miei giorni. Non si trattava solo di scoprire gruppi e canzoni di cui parlare l’indomani sui banchi di Contabilità (anziché seguire la spiegazione della partita doppia): la posta in gioco era molto più alta. Si trattava di dare gli ultimi colpi di scalpello alla scultura immaginaria della mia persona. I colpi decisivi. Ne sbagli uno e hai un orecchio in meno, capite? Naturalmente avrei continuato a scoprire musica nei decenni successivi (diavolo, mi sono messo ad ascoltare i Megadeth dopo i cinquanta), però una volta passata la ventina non si sarebbe trattato più di definire la colonna sonora del mio personale romanzo di formazione, ma soltanto, e banalmente, di arricchire la mia cultura musicale.

Quel tardo pomeriggio insomma, diciamo di fine ottobre (mah), seguivo Video Music sorbendomi coscienziosamente una clip dopo l’altra, buttato sul divano della mansarda di fronte al piccolo televisore Mivar, testimone di una sfilata di video che sarebbe stata interrotta solo dalla voce di mia madre dal piano di sotto (“è prontoooo!” – fino al terzo richiamo non mi sarei mosso). Mentre il mondo si sciroppava felice house e techno, per coloro che si titillavano con l’idea del rock alternativo l’epoca era quella dello shoegaze, del baggy di Manchester: in tv passavano i Charlatans, i Ride, magari The Farm. Mi pare che Nevermind fosse appena uscito ma i Nirvana erano una band semi sconosciuta che aveva fatto solo una canzone (fighissima certo, ma solo quella). Quel pomeriggio il mio piccolo nirvana personale fu sconvolto da quattro tizi in mezzo a uno stadio vuoto, un suono di chitarra che era come la sabbia e un giro d’accordi con la Luna in Sagittario.

Pensiero numero uno: WTF?

Pensiero numero due: LO VOGLIO!

Per fortuna l’emozione non mi fece dimenticare la cosa più importante: sgranare gli occhi e non mollare l’angolo in alto a sinsitra dello schermo per nulla al mondo, perché in quell’angolo poco prima della fine della canzone sarebbe comparso, effimero come una stella cadente, il nome della band. Se me lo fossi perso non c’era modo di sapere cosa avevo appena visto: mica potevi andare sul sito della televisione per consultare le loro playlist. Non esistevano, i siti internet. O se esistevano, dormivano.

Fu così che seppi che avevo appena scoperto i Pixies; il nome della canzone però no, quello non riuscii a memorizzarlo (siccome poi i siti internet li hanno inventati, posso dirvi che era Alison). Com’ero solito fare all’epoca, e più o meno per i trent’anni seguenti, il giorno dopo mi scapicollai fino al primo negozio di dischi che mi capitò a tiro per comprare qualcosa dei Pixies.

Comprai il disco sbagliato, cioè un album dei Pixies, ma non quello con la canzone di cui mi ero innamorato. Succede. Non conoscevo il titolo della canzone, ero andato a caso. Non aveva nessuna importanza: pochi mesi più tardi, i dischi dei Pixies li avrei avuti tutti. Almeno quelli del periodo d’oro. Il primo che avevo comprato, quello preso alla cieca, si chiamava Trompe Le Monde e posarlo sul lettore di CD (eh, lo so) era come entrare in Guerre Stellari: camminavo in una dimensione aliena. Quel disco era una pioggia di asteroidi da due minuti l’uno, a volte meno, che davano l’assalto al mio mondo bucando la mia debole atmosfera senza pietà. L’unico modo in cui riuscivo ad ascoltare i Pixies era al buio, con le cuffie, sdraiato sul pavimento dopo che tutti erano andati a letto.

Più di trent’anni dopo, all’Olympia di Parigi, i Pixies hanno dato un concerto in cui hanno suonato dall’inizio alla fine due dischi: il disco di Alison e quel Trompe Le Monde che comprai l’indomani a caso. Più catartico di così si muore. Pensare che sono pure arrivato tardi all’Olympia, ero dell’idea di starmene tranquillo in disparte. Ma i parigini proprio non sanno andare ai concerti e così mi sono ritrovato senza manco volerlo in prima fila, col naso sotto gli stivali messicani della bassista. E dalla prima fila, ancora una volta, mi sono ritrovato sdraiato su quel pavimento di casa mia, al buio, quando tutti dormivano.

Informazioni su Francesco Segoni

Sono un uomo italiano che vive a Parigi: questo è tutto quel che so di me, il resto cambia tre volte al giorno. Mi si possono rimproverare tanti difetti, ma non la coerenza. Se mai doveste notare che qualcosa in questo blog è scritto male, giuro che l'ho fatto apposta.
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