LA DONNA DAL VOLTO BIANCO

Kyoto ormai è così lontana da sembrare un sogno, ma devo tornare a quella sera in cui la maschera è caduta. La vostra espressione da samurai impassibile non inganna nessuno, amici giapponesi. Lo sapevo che nei vostri petti batte un cuore. Forse va a pile, ma batte.

Fatto sta che quella sera andavamo alla deriva a Gion, la Trastevere di Kyoto, affascinante se non più molto autentico quartiere delle geishe: quello che io avevo improvvidamente definito come il nostro puttan-tour, con uno dei miei famosi slanci di poesia. La Babsie mi aveva rimpicciolito con lo sguardo come una maglietta lavata a novanta gradi, e aveva ragione.

Gion è un reticolo di stradine tranquille, ristoranti tradizionali e casette di legno. Qui, sbirciando fra le sagome sgomitanti delle comitive di turisti, si scoprono quegli angoli di bellezza che mi sono mancati finora nel paesaggio urbano giapponese, in cui (al di fuori dei templi e dei giardini, spazi circoscritti e dedicati alla cura dell’anima) niente sfugge alla dittatura della funzionalità: il piano regolatore nazionale probabilmente dice solo: “Purché sia un cubo grigio-beige”.

A Gion insomma abbiamo fatto una passeggiata nel Giappone degli vecchi film che non ho visto e siamo andati a cena in un ristorante tradizionale, ed era pure buono. Kaiseki, si chiama questo tipo di cucina: è un’esplorazione dei sapori e degli stili di cottura della cucina giapponese, crudo compreso. Non si ordina nulla, nel kaiseki: ci si sottomette umilmente agli umori del cuoco (e in genere è meglio così).

Ad accoglierci nel locale c’è una signora di mezza età con il viso impastato di bianco (“una ex geisha!” penso senza osare dirlo, perché ho un vago sentore di gaffe). Di fronte a noi, come sempre seduti al bancone di fronte alla cucina, un giovane cuoco allegro spignatta assistito dalle sous-chef. È chiaro che la donna dal volto bianco è il boss: ammiriamo l’indifferenza con cui sorseggia la sua grossa birra alla spina e chiacchiera con un tizio vestito da uomo d’affari che cena da solo in fondo al bancone, mentre il cuoco lascia la cucina e corre ad apparecchiare per una coppia appena entrata.

Intorno a lei si sgobba, si suda, si corre: la donna dal volto bianco osserva, approva, corregge, si serve un’altra birra e ride con la coppia che si è appena seduta accanto a noi, dal lato della Babsie. Lui, ubriaco fradicio già quando è arrivato, occhi rossi e fuori dalle orbite, prende un interesse particolare nella Babsie e insiste a tenere viva la conversazione pur non parlando una parola d’inglese.

I due cinesi seduti di fianco a me sono silenziosamente disprezzati da tutti, mentre io e la Babsie cominciamo ad attirare l’attenzione generale. Padrona, cuochi e clienti locali si mettono a ripetere ossessivamente “Italy, Italy!”, unica parola che ci permette di gettare un ponte oltre l’incomunicabilità (il cuoco aggiunge un graditissimo “Materazzi”). Noi ridiamo, loro ridono, il tizio dagli occhi rossi è praticamente sdraiato su di noi, l’uomo d’affari prova ad insegnarci parole giapponesi che non capiamo, per un attimo spero quasi che ci offra la cena ma credo che i soldi gli servano per il dopo-cena. Quando chiediamo il conto la donna dal volto bianco sente il bisogno di annunciarlo a tutti: noi facciamo l’inequivocabile gesto del conto e lei grida “Italy bla bla bla” a tutti clienti, che si affrettano a complimentarci, almeno credo.

I cinesi sono ancora lì, dimenticati. Scambio con loro un sorriso mesto mentre paghiamo, tanto basta perché ci chiedano, loro che l’inglese lo parlano, le solite cose che si dicono fra turisti. Le due parole che ricordo dal malaugurato corso di cinese che feci anni fa li fanno sorridere, o forse ridere (di me).

Torniamo nella notte di Gion sotto lo sguardo benevolo della donna dal volto bianco, che ci accompagna alla soglia del suo ristorante e ci osserva mentre ci allontaniamo un po’ brilli pure noi.

Informazioni su Francesco Segoni

Sono un uomo italiano che vive a Parigi: questo è tutto quel che so di me, il resto cambia tre volte al giorno. Mi si possono rimproverare tanti difetti, ma non la coerenza. Se mai doveste notare che qualcosa in questo blog è scritto male, giuro che l'ho fatto apposta.
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