UNA STORIA LOSCA

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Io: “Scusa, ce l’hai il disco di Chelou ?”

Giovane hipster che lavora nel negozio di dischi fighetto-parigino Le Balades Sonores: “Chelou? Mai sentito. Come “louche” in verlain, vuoi dire?”

Sono uscito dal negozio con la testa ciondolante rasoterra, sconfitto. Voglio dire, se non ce l’hanno alle Balades Sonores (anzi: non lo conoscono nemmeno!), che speranze ho di trovare qualcuno che venda il disco, UN disco, uno qualunque, di Chelou?

Chelou è una chimera. Quasi. Chelou è un musicista inglese bravissimo, straripante di talento e di originalità. Ma è sfigatissimo. Nell’era in cui le portinaie di Quarto Oggiaro pubblicano tutorial su come lavare le scale che generano milioni di abbonati ai loro canali YouTube, in cui esistono coach di abbinamento dei calzini che diventano Instagram celebrities e navigano nei fantastiliardi, Chelou non se lo fila nessuno. Ma nessuno! Non riuscirebbe a fare mille visualizzazioni su YouTube nemmeno se pubblicasse un video in cui svela i segreti degli Illuminati mentre porta Papa Francesco a fare il puttan-tour (e intanto sui sedili posteriori dell’auto succede un’orgia sfrenata fra i Mötley Crüe e gli eroi della Marvel in carne e ossa).

L’ho scoperto fortuitamente Chelou, come si dice che si scoprano le cose migliori: tipo quando ascolti qualcosa su SoundCloud e poi ti distrai e ti metti a fare altro, come riordinare la collezione di dischi in ordine alfabetico, ma alfabetico in base al middle name di colui che ha suonato il basso nell’album, tanto per mettere un pizzico di pepe nella tua vita, e intanto SoundCloud continua ad andare da solo, scegliendo canzoni a caso (o meglio in base agli algoritmi pensati dalla NASA e dalla CIA per dominare il mondo), finché a un certo punto una musica celestiale richiama la tua attenzione e tu alzi la testa e dici “wowowow, ferma tutto, chi è questo, reggimi un momento la birra…” e passi la bottiglia di birra al tuo amico (che però è immaginario, ancora una volta, e quindi lasci la birra a mezz’aria e lei cade sul divano macchiandolo, e tu darai la colpa alla pipì del gatto quando la Babsie scoprirà l’alone giallognolo) e vai verso il computer come se ci fosse dentro il Pifferaio Magico che ti attira, e indaghi sullo schermo per sapere chi ha scritto, suonato e cantato quelle note celestiali…

… ecco, quella volta era Chelou. Era qualche anno fa.

Da allora, sono andato a caccia di Chelou in tutti i negozi di dischi di Parigi, senza mai trovarlo. Che poi, in Francia la cosa è ancora più complicata perché il nostro bravo amico si è scelto un nome mica facile. In Francia, la parola “chelou” è la versione in “verlain” (cioè nello slang adolescenziale basato sull’invertire le sillabe di una parola, slang che ovviamente nella realtà è usato soprattutto da gente di mezza età che vuol sentirsi giovane), della parola “louche”; “louche” essendo a sua volta un aggettivo che significa “losco, poco chiaro, sospetto”. Capito? LOU-CHE in “verlain” diventa CHE-LOU. E tu, quarantenne che lo dici, ti senti subito più giovane & figo, anche se in realtà è come se andassi in giro per Milano a dire “una sfitinzia” o “i Caramba”. O la mia espressione paninara preferita di tutti i tempi, “non me ne sdruma un drigo”.

Per inciso, il gioco dell’inversione delle sillabe, ovvero il “verlain” (parola che deriva a sua volta dall’inversione fonetica delle sillabe dell’espressione “l’envers”, cioè “il contrario”), lo facevo anche io da bambino senza saperlo, quando giocavo con i miei amici (immaginari pure loro). Fine dell’inciso. Insomma: quando vado in giro a chiedere di Chelou a Parigi, mi guardano tutti male. “Il porno shop è dall’altra parte della strada”, mi dice qualche onesto rivenditore di dischi.

Le Balades Sonores (“passeggiate sonore”… fammi il piacere!) poi era la mia ultima speranza. Non esiste negozio più ricercato, hipsterizzato, alternativo, infighettato in tutta Parigi. Ci lavorano due o tre giovani abbastanza belli da essere attraenti ma non troppo perché non si possa dire che sono stupidi, indossano tutti e tre occhiali da vista con le lenti piccole e rotonde (dico “indossare” non a caso, perché secondo me non hanno problemi di vista), giuro che un paio di volte li ho visti pure con la camicia da boscaiolo a quadrettoni, tengono solo edizioni in vinile di gruppi di folk-elettronica che hanno meno di venticinque fan (famiglia inclusa), perfino per entrare a chiedere un’informazione devi aspettare fuori dalla soglia finché ti cresce la barba a una lunghezza adeguata. Vabbè, mi sono detto, se non ce l’hanno nemmeno alle Balades, mi rassegnerò ad ascoltare il povero Chelou in streaming su Spotify come tutti gli altri altri suoi (sette) fan.

A questo punto devo fare un coming out. Altrimenti sembra che io non abbia alcuna responsabilità nel fallimento della mia relazione tormentata con Chelou. Invece ce l’ho. Ahimé.

Lo scorso anno, saputo che sarebbe venuto a suonare in un caffè di Parigi, comprai i biglietti per me e la Babsie. Trepidazione! Poi passarono le settimane… un bel venerdì sera d’autunno la Babs torna da Lille dopo una lunga settimana di lavoro… è stanca… propongo: “Ci andiamo a fare una bella cena in un ristorante figo, per rilassarci e iniziare bene il weekend?” Lei mi fa: “Bella lì, andiamo!” (Noi, quando siamo distrutti, di solito usciamo a cena – funziona bene per riposarsi, perché non devi cucinare, apparecchiare, servire, sparecchiare, lavare i piatti… a patto di non andare troppo lontano). E così andiamo… si mangia e si beve, si gode di frizzi e lazzi, si torna a casa, si è fatto tardi… sono sulla strada del bagno, pronto al lavaggio denti (sono l’unico che ha l’impressione di passare la vita a lavarsi i denti?) e vengo trafitto da una tremenda consapevolezza che mi paralizza, mi fulmina, mi atterrisce. Grido. La Babs arriva di corsa, preoccupata: “Cosa succede? Stai bene?”

Balbetto: “S-stasera… c-c’era il c-concerto di Ch-Ch-Ch…”

Non riesco nemmeno a dirlo. Mi fa troppo male.

“… Chelou!” grido infine, e mi lascio cadere nella vasca da bagno asciutta.

Avevo i biglietti e mi sono dimenticato del concerto! Mentre mangiavo tranquillo il mio sushi di fegato di rana pescatrice, lui suonava, solo soletto, chiedendosi sicuramente “Ma… dov’è Mepu?”, con gli occhi da cerbiatto orfanello.

Ah, disgraziato me!

Per fortuna, la vita, come l’opinione pubblica americana, è sempre pronta a perdonare un peccatore sinceramente pentito. Basta fare una conferenza stampa e chiedere scusa a tutte le persone che abbiamo deluso (nel caso dell’opinione pubblica americana) oppure chiudersi un camera a piangere tutta la sera (nel caso della vita). Io ho fatto entrambe le cose. Ho radunato la Babsie e la gatta chiedendo amaramente scusa, e poi sono andato a piangere in un angolo per qualche ora.

E la vita mi ha dato un’altra chance!

Chelou torna a suonare a Parigi. Non solo! Viene alla Boule Noire, piccolo, delizioso locale sul boulevard de Rochechouart, letteralmente a due minuti a piedi da casa – viene comodo pure per bere una birra perché più che una sala da concerti, è un… come si dice discoteca in Italia nel 2019? In inglese esiste club, in francese boîte, sono nomi universali che attraversano i generi musicali e le età dei frequentatori, ma in Italia ho l’impressione che il modo di chiamare un locale dove si balla dipenda dai casi. Come li chiamate l’Alcatraz o il Goganga a Milano?

Vabbè, lasciamo da parte il glossario della febbre del sabato sera. Compro di nuovo i biglietti per Chelou e questa volta metto trantacinque sveglie e dodici allarmi, faccio nodi ai fazzoletti, installo trappole per topi e ghigliottine nell’ingresso e pago un sicario per spararmi un proiettile di gomma sulla nuca alla vigilia del concerto con un post-it appallottolato intorno al proiettile che dice “CONCERTO DI CHELOU DOMANI”.

Funziona. La sera in questione, io e la Babs arriviamo puntuali. Entriamo alla Boule Noire, ci saranno in tutto dieci persone che bevono una birra a bordo pista come se aspettassero l’autobus alla fermata. Beh, probabilmente dieci persone sono il nuovo record di presenza a un concerto di Chelou, mi dico, non è male. Sul palco spunta un ragazzino francese che dimostra dodici anni e prima che io abbia il tempo di chiedergli se si è perso e se vuole che lo aiuti a ritrovare i genitori, annuncia al microfono: “Oggi pomeriggio mi hanno chiesto di fare da ‘band di supporto’ questa sera al concerto di Chelou, siccome avevo già finito i compiti di scienze, ho accettato.”

Fa partire un po’ di roba preregistrata su solito MacBook Pro che ormai è indispensabile sul palco di ogni concerto (sigh!) e si mette a suonare la chitarra elettrica e cantare. Per essere un ripetente di prima media è pure bravino, certamente simpatico. Intanto arriva altra gente, non credo ai miei occhi. Quando è il momento di Chelou, ci sarà quasi un centinaio di persone in sala.

Io e la Babsie siamo in prima fila, più per il disinteresse degli altri che per la nostra foga, anche se devo dire che è un’ottima posizione perché mi permette di appoggiare la mia birra sul palco quando il braccio si stanca.

Chelou è bassino, ha la pelle del colore dei morti nelle celle frigorifere delle serie TV sulle inchieste giudiziario-poliziesche, i capelli biondini, lisci e molli, e una pletora di chitarre elettriche schierate sul palco. Lo accompagnano un batterista e l’immancabile MacBook Pro (grrrr….)

Come prima canzone mi fa una cover dei Nirvana che mi ero rimesso ad ascoltare (proprio quella canzone, intendo, non i Nirvana in generale) proprio in questo periodo, dopo anni che non l’ascoltavo. Coincidenza? I don’t think so! Qualcuno deve avergli detto che ci sono io questa sera al concerto, e lui ha voluto farmi un omaggio. Anche se per questioni di pudore, credo, finge di non sentirmi o vedermi quando lo prendo per il gambale dei jeans e grido cose che non ricordo più.

All’inizio sembra un po’ timido, il nostro Chelou; poco a poco però si scioglie e si mette perfino a parlare! Anzi, vuole chiaramente stabilire un legame emotivo con il suo pubblico.

“Ciao Parigi” dice, facendo prova di grande originalità. “Mi spiace per Notre Dame… cioè l’architettura in Gran Bretagna non è niente di che quindi non me ne frega niente in genere… ma mi spiace di Notre Dame, per voi intendo…”

Anche meno, Chelou! Torna a suonare, eh? Non ti preoccupare, ti troveremo uno speechwriter per la prossima volta.

E lui suona, suona… fino alla fine del concerto, musica celestiale.

Quando cala il sipario (ovvero quando dà conferma al suo Mac che vuole veramente fare shut down del sistema), il buon Chelou va a mettersi quatto quatto in fondo alla sala, appollaiato mestamente vicino a una piccola montagnetta dei suoi dischi. Cosa? Dischi?!? Ma allora esistono! Si possono comprare! Però… ehm, 18 euro per il tuo vinile? A ‘li mortacci, Chelou, mica hai scritto The Dark Side of the Moon, eh?

E vabbè, io sono per il sostegno agli artisti giovani, onesti, indipendenti, puri come te. E poi, ogni volta che c’è da spendere, la Babsie m’incoraggia. Te lo compro! Una ragazza che ha appena comprato il suo album gli ha chiesto una dedica; così, quando mi presento io, lui prende automaticamente in mano il pennarello e chiede i nostri nomi. Io e la Babs glieli diciamo, gli facciamo pure dieci volte lo spelling perché lo vediamo molto, ma molto incerto. Finalmente firma la dedica, e nel renderci il vinile fa: “Sono i nomi dei vostri figli?”

“Certo”, dico io. “Sono i nostri figli a essere i tuoi veri fan, a noi due ci fai schifo, ma al concerto ci siamo venuti noi perché loro sono troppo piccoli. Ho memorizzato tutto quello che hai cantato, appena torno a casa glielo ricanto tutto uguale, ai miei figli. Noi facciamo sempre così.”

No, in realtà non lo dico. La Babs mi previene e dice la verità: che quei nomi sono i nostri, perché non abbiamo l’abitudine di far autografare i nostri dischi con dei nomi random di altre persone.

Si crea un silenzio leggermente imbarazzante. Vorrei spostarmi per far posto alla lunga fila dietro di me, ma dietro di me non c’è nessuno. Chelou sorride come un bastardino a cui hanno appena rotto le ossa e poi fatto una carezza.

“Di dove sei?”, gli chiedo tanto per fare conversazione.

“Sono di Londra… ma ormai ho smesso d’interessarmi alle città”, mi dice.

Scusa, Chelou, ma che minchia vuol dire? Mah. Sono tentato di usare la stessa risposta alla prossima festa, per vedere l’effetto che fa. Oppure lo posso dichiarare per i documenti. Tipo:

  • Impiegato: “Luogo di nascita?”
  • Io: “Monza, ma ormai ho smesso d’interessarmi alle città, quindi scriva pure ‘Fagioli borlotti”.

Caro Chelou. Ho avuto il mio concerto, ho il mio disco, ho perfino la mia dedica. La terza dedica che mi capita di chiedere in vita mia (sempre a degli emeriti sconosciuti, perché mi fanno tenerezza: le altre due sono di Erika M. Anderson e Jonathan Clancy degli His Clancyness). Ora vado a casa contento, non ho altro da chiederti. Anche perché, a dirla tutta, ho un po’ paura ogni volta che apri bocca non per cantare.

Informazioni su Francesco Segoni

Sono un uomo italiano che vive a Parigi: questo è tutto quel che so di me, il resto cambia tre volte al giorno. Mi si possono rimproverare tanti difetti, ma non la coerenza. Se mai doveste notare che qualcosa in questo blog è scritto male, giuro che l'ho fatto apposta.
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